lunedì 30 novembre 2009

01

Il paragone più verosimile che riesco a vestire ora è quello di un maratoneta storpio.
E' l'unica cosa che sono ora, l'impegno di cui mi faccio malamente carico è quello di avere un senso ma non portandolo avanti realmente a causa della mia menomazione.
Sono quà a decantare il fallimento delle mie conquiste e la falsa speranza di quello che vesto al momento, perchè diciamocelo, chi ci ha mai creduto che potessi essere un ottimista, proprio io.
Diciamocelo, che alla fine la maratona non è importante, l'obbiettivo neanche, quello che fai nemmeno, quel che vinci meno ancora, l'importante è l'impeto che ci metti, il sudore della fronte e il sangue delle mani e dei denti, la rabbia, il dolore, la sofferenza, la voglia.
Quello che mi manca è questo, è il dolore, la sofferenza, la mancanza, lo spezzarsi in due, il ricoprirsi di tagli e di scheggie per qualcuno, per qualcosa, per se stessi.
Ho voglia di incassare colpi, ho voglia di sentire del male, di provare disappunto, di rimanere sorpreso e deluso da qualcuno, ferito e ammaliato, in un angolo gonfio di lividi.
Invece sono rinchiuso nella mia sanità, nel mio essere intoccabile e intoccato, nella malattia dell'essere intangibile, intonso e integro, freddo e lasciato a gelare.
Non chiedo altro che qualcosa per andare avanti, non riesco più a far finta di combattere per qualcosa, se non c'è qualcuno che mi bastona, che è capace di farmi del male.
Vivo la mia attualità nell'irreparabile indifferenza verso e da tutti, costruita a fatica, sudata e involontaria o forse voluta.

Sto troppo bene per non stare peggio di chiunque, perchè il calore dei pugni mi manca da troppo tempo.

L'unica paura che ho è quella di non sentirne più il bisogno.
Non ho bisogno di essere compatito da me stesso, non lo sopporto.